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Una strategia per l’Italia

 

Intervista a Enrico Savio, Chief Strategy e Market Intelligence Officer di Leonardo, tratta dalla rivista Limes, n.12 2021 “Lo Spazio serve a farci la guerra”.

LIMES: La dimensione cosmica cambia la strategia delle potenze?

SAVIO: Sì, e ci obbliga a determinarne una per l’Italia.
Ma una strategia dello Spazio, per essere tale, va anzitutto definita. Tale strategia deve includere due ordini di elementi: le capacità infrastrutturali di supporto alle attività terrestri e quelle di sostegno alle attività di esplorazione, nella prospettiva della colonizzazione dello spazio cosmico e dei corpi che lo abitano. Ciò innesca a sua volta l’esigenza di proteggere gli assetti spaziali. Questi non sono più solo una piattaforma da cui esplorare l’ignoto. Sono anche la «porta» che consente di attingere alle risorse dello Spazio per sostenere la vita umana sul nostro pianeta, nonché strumenti indispensabili a monitorare la Terra stessa: la salute degli ecosistemi, le attività economico-produttive, le capacità di alleati e avversari. Non a caso la visione statunitense contempla basi in orbite cislunari - tra Terra e Luna - da raggiungere con piattaforme riutilizzabili. Ciò rende l’idea dei volumi di traffico - persone, mezzi, materie prime - che nell’arco di qualche decennio potrebbero svilupparsi da e per la Terra onde garantire livelli di produzione e consumo adeguati alle esigenze di un’umanità in crescita. Senza che però tale sviluppo comprometta l’ambiente terrestre in modo per noi irreparabile.

 

LIMES: Quali i presupposti, materiali e non, per articolare e mettere in pratica una tale visione?

SAVIO: Certamente la disponibilità di materie prime, senza le quali è impossibile realizzare le infrastrutture in questione. Poi il know-how scientifico-tecnologico, dato che parliamo di assetti estremamente avanzati. Ancora, la disponibilità di spazio - cosmico, ma anche terrestre - dove costruire, posizionare e gestire tali apparati. Può sembrare un aspetto minore, ma non lo è. I siti di lancio, ad esempio, necessitano di ubicazioni adeguate anche per intercettare orbite e «finestre» migliori; i sistemi radar, specie se grandi e distribuiti, presentano esigenze simili.

Il lancio di James Webb a bordo di Ariane 5. - © ESA/ CNES/ ArianeSpace

 

Tali siti devono poi essere protetti con perimetri e spazi d’interdizione consoni. In una prospettiva di medio-lungo termine, problemi analoghi si porranno per satelliti e pianeti - a cominciare dalla Luna - su cui nell’arco di qualche decennio potrebbe insediarsi una stabile presenza umana. Lì l’obiettivo principale sarà assicurare durature possibilità di vita per gli esseri umani. Oggi la permanenza umana nello Spazio è possibile, ma non sostenibile: necessita di continui input di risorse dalla Terra. Pertanto, malgrado l’indubbia importanza scientifica delle attività di studio e ricerca svolte nell’Iss (la Stazione spaziale internazionale), è impensabile che possa concorrere a sostenere la vita sulla Terra. L’autosufficienza, o quantomeno il controbilanciamento degli input terrestri con adeguati output - in termini di risorse, tecnologie, logistica - sarà dunque il traguardo primario.

La Stazione Spaziale Internazionale. - ©NASA

 

LIMES: La Luna avrà quindi un ruolo centrale in questa nuova corsa allo Spazio?

SAVIO: Sì. Come lo ha avuto ai tempi della guerra fredda. Ma con due importanti differenze. La prima è l’obiettivo di stabilire una presenza umana fissa sul nostro satellite, rendendolo in prospettiva abitabile anche al fine di sfruttarne le risorse. La seconda è l’idea che una Luna abitata, sulla sua superficie e nelle sue immediate vicinanze - mediante basi che le orbitano attorno - possa servire da trampolino di lancio per l’ulteriore esplorazione dello Spazio, fino a Marte e oltre.

©ESA

 

Presupposto di questo ambizioso processo è ovviamente la tecnologia. Il suo livello attuale in ambiti come la miniaturizzazione e l’aumento di potenza dei computer, i nuovi materiali superleggeri, l’intelligenza artificiale, la missilistica, gli accumulatori elettrici. Ma anche gli sviluppi futuri, sia quelli lineari sia i salti tecnologici. Abbiamo già raggiunto livelli di automazione in compiti relativamente complessi che schiudono inedite prospettive di esplorazione spaziale. Lo osserviamo su Marte, dove le ultime missioni della Nasa - Perseverance, Ingenuity ed Exomars, con il lander Schiapparelli di fabbricazione italiana - stanno realizzando esplorazioni prima impensabili senza equipaggio umano. In prospettiva l’automazione sarà fondamentale anche per la colonizzazione lunare: la stampa 3D, per esempio, già permette di realizzare edifici sulla Terra e potrebbe costruire i moduli abitativi lunari, magari usando materie prime estratte in loco da macchinari a funzionamento autonomo.

Il Lander Luna 27. - ©Roscosmos

 

LIMES: Nello spazio, ancor più che sulla Terra, non rischiamo di divenire schiavi della nostra stessa tecnologia?

SAVIO: Parlerei di tecnologia che abilita, non che schiavizza. Nel 1948 il matematico statunitense Norbert Wiener definì la cibernetica, in sintesi, come la sostituzione dell’uomo con macchine in compiti e lavorazioni altrimenti impossibili. Che le inaudite possibilità schiuse da questa forma di moltiplicazione della forza - fisica e intellettuale - umana siano utilizzate a nostro vantaggio dipende da noi. Superare la fascia di Allen che ci divide da Marte senza subire gli effetti nocivi delle radiazioni, stante l’attuale indisponibilità di schermature idonee a tutelare la salute degli astronauti sulle lunghe distanze, ne è un esempio. Nei prossimi due o tre decenni prevediamo dunque una proiezione robotica sempre più avanzata nello spazio, cui far seguire forme di esplorazione e colonizzazione con equipaggio.

Crateri di Marte. - ©ESARoscosmosCaSSIS

 

Tutto questo costa molti soldi. E qui sta l’altra grande novità della fase attuale. Specie nella sfera dell’aerospazio civile, la cosiddetta Space economy, stiamo assistendo al fiorire di partenariati pubblico-privato. Ma nello spazio cosmico la distinzione tra civile e militare è assai sfumata, stante il carattere duale di molte tecnologie usate e delle attività svolte. Si pensi all’osservazione satellitare della Terra che può trovare impiego in agricoltura, nella gestione di reti complesse, nella repressione di attività criminali o nello spionaggio.

Coltivazioni lungo il fiume Columbia (Oregon, USA). COSMO-SkyMed - © ASI, distribuita e processata da e-GEOS

 

Comunque, a generare questa nuova collaborazione tra governi e privati sono gli enormi introiti generati dall’avvento dell’elettronica di consumo e dalla connessa new economy. Per questo nella galassia di attori che animano la Space economy spiccano giganti come SpaceX (Elon Musk), Blue Origin (Jeff Bezos) o Virgin Galactic (Richard Branson), attivi sia nel settore dei lanci sia in quello, crescente, dei satelliti, cui è interessata anche Alphabet (Google). La progressiva miniaturizzazione dei satelliti sta infatti determinando la riduzione dei costi di fabbricazione, lancio e gestione e il conseguente, esponenziale aumento del loro numero nelle orbite terrestri. Tali aziende rendono un grande servizio agli Stati Uniti, perché sobbarcandosi i costi - industriali e finanziari - di sviluppo delle nuove tecnologie spaziali consentono alla Nasa, dunque al governo statunitense, di ritagliarsi un ruolo di coordinamento e supervisione. Cioè di incubatore strategico.

 

LIMES: Ma un apparato industriale più vasto è anche più vulnerabile.

SAVIO: Certamente. Aggiungo che il suo innato dualismo civile-militare lo espone doppiamente: alla concorrenza esterna, più o meno leale, e alle minacce, fisiche e cibernetiche, di attori ostili. Di pari passo alla Space economy e alla nuova Space race va dunque delineandosi il tema cruciale della protezione: di assetti fisici, persone, tecnologie e proprietà intellettuale. Le armi antisatellite sperimentate negli ultimi anni da Russia e Cina in aperta violazione dei protocolli di contenimento dei detriti spaziali sono solo una manifestazione, forse la più eclatante, del problema. In chiave prettamente militare, l’implicazione è chiara: occorre ripensare concetto e pratica della deterrenza.

Oggetti tracciabili in orbita intorno alla Terra. - ©ESA

 

LIMES: Come?

SAVIO: La proliferazione nucleare della guerra fredda aveva alcune «leggi». Anzitutto eravamo in un contesto bipolare in cui la logica della mutua distruzione assicurata faceva sì che nessun contendente potesse sperare di uscire vittorioso, o anche solo vivo, da un conflitto su vasta scala. Era inoltre, quella atomica, una deterrenza simmetrica: tanto in fase di riarmo che di disarmo, le due superpotenze perseguivano una sostanziale parità delle capacità offensive - dunque, difensive. Oggi queste due caratteristiche stanno venendo meno: la proliferazione delle tecnologie aerospaziali, compresa la balistica, rende impossibile controllare appieno la dinamica dell’escalation. La nuova frontiera della missilistica sono i proiettili ipersonici testati da Russia e Cina, la cui traiettoria di rientro «a vela» nell’atmosfera - dalla troposfera dove sono sparati - sfugge agli odierni sistemi antimissile. A complicare le cose c’è poi il carattere asimmetrico della ciberguerra - in cui la Corea del Nord, per dire, è una potenza - dato dal crescente dualismo di tecnologie informatiche sempre più potenti e diffuse. La riprova sta proprio nelle tendenze di sviluppo degli armamenti nucleari, dove a dominare è sempre più una concezione d’impiego tattico. In un mondo a tecnologia diffusa, «creare un deserto e chiamarlo pace» ha ancor meno senso di prima.

 

Inoltre, in questa competizione dominano Stati Uniti, Cina e Russia. Gli altri, compresi noi europei, rischiano di vedere annichilite le loro aspirazioni di autonomia, indipendenza e sovranità. Anche perché quanto sopra determina un’altra modifica del concetto di deterrenza, forse quella determinante. Se nell’èra atomica la deterrenza si è basata soprattutto sulla capacità di rappresaglia, nella nuova età spaziale sarà sempre più affidata alla capacità preventiva. Sia nel senso dell’individuazione anticipata di intenzioni e azioni ostili, sia in quello della fulminea rapidità del first strike quando ritenuto necessario.

 

LIMES: Marciamo dunque spediti verso l’inveramento della «profezia» di Wiener? Ma un mondo in cui il calcolo tattico ha tempi così compressi da doversi affidare a intelligenze artificiali appare disumanizzato.

SAVIO: Solo in parte. Questo ci porta ad altre due considerazioni.
Primo: è appunto la tattica, non la strategia che deve affidarsi alle macchine. L’evoluzione tecnologica della deterrenza - mirante, ricordiamolo, a non usare le armi che dispiega - non può prescindere dall’attività geopolitica e dal calcolo costi-benefici di leadership che fanno l’interesse nazionale. Un interesse alla sopravvivenza, possibilmente al benessere. Gli assetti aerospaziali come strumento di una geopolitica mossa dai bisogni e dal raziocinio umano, dunque. Non viceversa.

Secondo: se i singoli paesi europei, potenze medio-piccole, non si dotano di strategie nazionali nel campo dello Spazio e non le mettono a sistema in una dimensione comunitaria, rischiano la completa dipendenza economica e geostrategica. Possiamo affidarci alla benevolenza dell’egemonia americana - ammesso sia questa che scegliamo o ci venga imposta - ma qualsiasi egemonia esterna, specie se non si è più al centro dell’altrui orizzonte come durante la guerra fredda, comporta fare interessi che non sono necessariamente i propri. È una cooperazione che può partire subito sul piano pragmatico, senza bisogno di complesse formalizzazioni. Ma che richiede accordi bi- o multilaterali.

 

LIMES: Ne è esempio il recente trattato del Quirinale tra Francia e Italia. Con la prima che in chiave neogollista proclama di agire a nome dell’Unione Europea e noi che, più o meno consapevolmente, ne sposiamo il disegno.

SAVIO: Questo trattato, che nel complesso è un fatto positivo, evidenzia una grande carenza. Chiunque nella Ue può definirsi «Europa» e pretendere di rappresentarla, proprio perché manca una visione strategica del ruolo che l’Unione dovrebbe giocare nelle nuove partite geopolitico-spaziali e tecnologiche. È un deficit non solo normativo, ma concettuale. Dunque, operativo. Se però ci sono due paesi europei il cui partenariato in campo spaziale ha senso, quelli sono Francia e Italia: gli unici che, con la parziale aggiunta della Germania, abbiano capacità industriali di rilievo nel settore. Il trattato del Quirinale giunge dopo anni di sforzi da parte italiana per consolidare un rapporto con Parigi sullo Spazio, onde aggregare una massa critica. Questi sforzi hanno già prodotto nel 2005 la Space Alliance tra Leonardo e Thales che nei settori delle piattaforme, dei programmi e dei servizi sta dando risultati estremamente validi. Ciò detto il sito di Kourou, nella Guyana francese, non può dirsi una base europea, pur essendo in uso all’Agenzia spaziale europea (ESA). Chi rivendica un ruolo guida nella creazione di una capacità spaziale europea deve assumersene le responsabilità.

Il centro spaziale internazionale di Kourou (Guyana francese) visto dallo spazio. - ©ESA/NASA

 

LIMES: Il trattato obbligherebbe l’Italia a esprimere un suo punto di vista sullo Spazio, su quale ruolo vogliamo e possiamo avervi. Riusciremo a stabilirlo?

SAVIO: Lo spero vivamente. Anche perché su questo come paese abbiamo le carte in regola. Leonardo è un player globale che opera in quattro mercati domestici - Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Polonia - ed è particolarmente idoneo alla nuova race for Space, in chiave nazionale ed europea. Senza escludere la partecipazione attiva a programmi spaziali transatlantici, nelle dimensioni civile e militare che, come visto, sono difficilmente scindibili. Con il piano Be Tomorrow 2030 il Gruppo si è dato una piattaforma strategica che richiede scelte coraggiose. Speriamo così di contribuire a un dibattito strategico nazionale di cui abbiamo urgente bisogno.​​​​